Messina: a cento anni dal terremoto che distrusse la città.
Era il 28 dicembre del 1908 quando un terremoto distrusse la città di Messina. Oggi, a cento anni da quel drammatico giorno si è arrivati al termine delle manifestazioni organizzate da enti, associazioni, comune eprovincia, per ricordare quel triste avvenimento. Ieri è stata avvertita una lieve scossa di terremoto dall’unità mobile della protezione civile nel corso della cerimonia di commemorazione del sisma. L’episodio, avvertito soltanto dagli strumenti, si è verificato intorno alle 17:30 e rientrerebbe nella normale attività sismica dell’area. L’epicentro della piccola scossa tellurica è stato localizzato nello Stretto di Messina 11 chilometri di profondità.
"Un terremoto della stessa intensità di quello che colpì Messina cento anni fa, farebbe quasi gli stessi danni di allora". L'ha detto nella città dello Stretto il sottosegretario alla Protezione civile Guido Bertolaso, che ha partecipato alla cerimonia di commemorazione del sisma del 1908. "Oggi con le tecnologie e il sistema di protezione civile - ha aggiunto - saremmo potuti intervenire subito e salvare molte più vite. Ma il sistema infrastrutturale è carente e proprio per questo i danni sarebbero rilevanti". Secondo il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, che ha preso parte alla cerimonia svolta al teatro Vittorio Emanuele, "la speculazione edilizia e l'erosione del territorio hanno provocato situazioni d'emergenza che devono essere risolte".
“Bisogna prendere decisioni per risollevare le sorti della città, sapendo che noi non siamo disposti a genufletterci davanti alla Regione”, così il sindaco di Messina, Giuseppe Buzzanca ha dichiarato nel corso del consiglio comunale per il centenario del sisma. "I politici del passato - ha aggiunto - hanno dimenticato la vocazione del territorio, distruggendolo". Il dibattito è stato aperto da una proiezione di immagini e foto inedite antecedenti il sisma, raccolte dall'architetto Nino Principato, per il quale "ciò che non è stato distrutto dal terremoto - ha detto - è stato distrutto dalla speculazione edilizia".
Tra le varie manifestazioni anche l'arrivo delle colonne mobili della Protezione civile, con schieramento di mezzi lungo la via Garibaldi, mentre il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, ha preso parte ad un incontro commemorativo al teatro Vittorio Emanuele insieme al sottosegretario Guido Bertolaso. Questa mattina alle 5.21, ora del terremoto che cento anni fa uccise soltanto a Messina 80 mila persone, è stata celebrata dall’arcivescovo Calogero La Piana, una messa in ricordo di tutte le vittime del sisma.
Chiara Ferraù
Fonte : http://www.ecodisicilia.com/messina-a-c ... -citta.htm
I Baraccati : cento anni senza casa.
Messina, cent'anni nelle baracche.
Esattamente un secolo fa, il sisma devastava la città dello stretto. Le capanne dei terremotati - 3.336 - sono ancora lì: popolate da gente che lavora, paga spazzatura e affitto, e deve ammazzare i topi a cucchiaiate. Senza più la speranza che questa vita «provvisoria» finisca.
- Il ponte di Messina, di questo pezzo di Messina che sconcia gli occhi e offende la ragione, è una passerella in legno di tre metri e poco più: ingegneria della povertà per superare uno stretto di liquami, un rigagnolo fognario a cielo aperto di scarichi e urina, che divide due blocchi di baracche. Campata unica d’assi marce, è stato tirato su da chi ha il coraggio e la necessità di campare qui dentro, in case che case non sono: eternit a far da tegola e, dentro, pareti morsicate dalle crepe e soffitti tinteggiati a muffa. Favelas del quartiere Giostra. Neanche la peggiore nella città che delle baracche ha fatto il monumento alla sua trasandatezza, i suoi cent’anni di baracchitudine: da quando, all’alba del 28 dicembre 1908, un terremoto devastante – magnitudine 7,2 della scala Richter – si portò via ogni cosa e quasi ogni casa: un bel po’ della Messina (e della Reggio Calabra) di allora e pure la vita di 80mila persone. Perché queste fatiscenze di Giostra – e quelle di Camaro o di Fondo Fucile – non compongono un villaggio tirato su l’altro giorno da qualche famiglia di rom.
Non sono le nuove emergenze dell’emigrazione, ma spettrali residenze italiane: la terza generazione delle baracche, le nipotine delle prime capanne offerte e montate da svedesi e americani, svizzeri e prussiani, all’indomani del terremoto, quando Messina diventò tutta di legno – compreso teatro, municipio e duomo – prima che il Fascismo costruisse baracche in muratura (le madri di quelle di Giostra), e la Repubblica, dopo i bombardamenti dell’ultima Guerra, inventasse queste «casette ultrapopolari a uso provvisorio», con vista sugli scarichi e affaccio su strade-cunicoli che sono tavolozza di ogni puzza, abitate da messinesi che lavorano (quando di lavoro ce n’è); che votano (spesso in cambio di promesse mai mantenute); che pagano la spazzatura (che li circonda), la corrente elettrica (ragnatele di fili volanti, stramate dai corti circuiti) e pure l’acqua del rubinetto (ma è gratis quella che piove dentro gli alloggi).
Generazioni di baracche e generazioni di messinesi che lì dentro ci hanno vissuto e ancora ci vivono, in più di tremila, nell’anno domini 2008, a cent’anni dal sisma: i quartieri dell’Annunziata, del Fondo De Paquale o di Giostra, come le stratificazioni geologiche della storia d’Italia, della sua classe politica siciliana e no, del suo squallore. Ché le baracche di Messina sono, oggi, una lezione di architettura da favelas a cielo aperto, dove l’infiltrazione mafiosa e quella dai soffitti, che si aprono su squarci di cielo, sono tutt’uno. E forse il solo luogo, di questo Paese, dove persino i luoghi comuni si schiodano dalla realtà come le assi di Concetta Albano, le mura della sua baracca: qui non puoi azzardarti a pronunciare una frase da niente, un modo di dire come sarà passato un secolo, senza che ti si torca lo stomaco mentre cerchi di manda giù alla meglio un groppo di indignazione e compassione.
Sembra una trincea, la baracca della signora, il fronte di una catastrofe umana: una sola stanza; un cesso nascosto da una porta di cartone che nulla può contro l’odore; il lavandino di fuori, oltre un cortile di cemento dove passeggiano i topi: «Ieri sera ne ho ammazzato uno dandogli una cucchiaiata in testa». Col suo unico cucchiaio. Ha ottant’anni la signora Concetta e in quella baracca, una di quelle del 1909, finanziata con i trenta milioni di lire sstanziati dal primo ministro Giovanni Giolitti, ci ha passato tutta la vita. «Prima sono morti i genitori, poi mio fratello se n’è andato e non l’ho più visto. Lavoravo come donna delle pulizie nelle famiglie. Ero brava e veloce. E aspettavo che qualcuno mi desse finalmente una casa. Me l’hanno promessa tante volte, ma io sono sempre qui».
Parla a fatica e cammina a piedi nudi tra i topi perché le scarpe sono ancora più insopportabili per i suoi piedi gonfi. Però si assesta di continuo i capelli grigi e appiccicosi e alla fine, tra due lacrime da sfinimento e una risata esagerata, di quelle per non piangere, apre uno dei sacchetti di plastica che le fanno da armadi e mostra una foto di quando era giovane e bella. E la baracca di legno, come il futuro, non faceva ancora paura. Siamo all’Annunziata, quartiere nord con vista sullo Stretto. Appena sopra, sul limitare della vergogna, ecco i nuovi palazzoni dell’Università e poco più in basso la metropolitana di terra conosce il capolinea, giusto in faccia al nuovo museo della città dove sono esposti Caravaggio e Antonello da Messina. E quella di Concetta Albano e della sua baracca, tirata su mentre a Palermo la mafia uccideva Joe Petrosino, sembra la perfetta metafora del «terremoto infinito» – delle false promesse, degli aiuti a fondo sperduto, del provvisorio che diventa per sempre – e di una città, regione, nazione sfinite. Solo che la vita di Concetta, dentro al suo tugurio – i pasti assicurati dalle suore del convento vicino, l’emergenza sanitaria dall’assistenza sociale – non è una metafora. E nemmeno quella di Orazio Giuseppe Andronaco e degli altri invisibili delle baracche, uomini e donne dimenticati da ogni lista di assegnazione ma segnati da un’età che non è la loro: i visi che non corrispondono all’anagrafe, invecchiati prima del tempo, prosciugati da alloggiamenti insalubri e rugati dall’umidità.
Dice Orazio Giuseppe, due blocchi di baracche più in là: «Ho 73 anni, raccoglievo ferro vecchio, e qui dentro ho tirato su la mia famiglia: mia moglie, che qualche anno fa è morta, e i nostri dieci figli». E qui dentro sono due stanze, una invasa di barattoli e stracci e robivecchi e l’altra rimpicciolita da un monumentale matrimoniale: «Ci dormivamo tutti insieme, uno sopra l’altro, come animali». E arredata con sei ventilatori e la bombola per l’ossigeno: «D’estate si muore dal caldo». E non solo per il caldo: soffitto opprimente con tettoia d’amianto. «E dire che a me basterebbe una mini-casa se me l’assegnassero. Anche se, per fortuna, due dei miei figli, guardi un po’ qui dietro, mi hanno costruito un bagno decente». Chissà cosa doveva essere prima, quando la famiglia cominciò ad allargarsi, nel 1951. «Ha visto? Case per cani, non per umani», si sfoga Eleonora, da mezzo secolo dentro alloggi di sfortuna che sembrano scatole da scarpe che hanno preso l’acqua.
È come se fossero appena passati, il terremoto e la guerra, in questi angoli di Messina di cui la città si vergogna. E non ama parlarne, salvo mandare a dire, quando c’è da votare, che presto ognuno avrà la sua casa. Certo, anche Domenico, che ha 20 anni ma non un lavoro, e la sorellina che fa la seconda elementare e adora «High School Musical e Zac Efron ma vorrei saper cantare come Gabrielle». Non puoi accettare che possa vivere lì, a un metro e mezzo dalla casa di Oronzo, dirimpettaia di baracca, con la madre Gaetana, 42 anni, che adesso va «a servizio», dopo due anni al Nord, «in un pastificio di Mantova, con contratto a termine, finché c’è stato lavoro». Eppure anche Gaetana, quando aveva l’età di sua figlia – come la signora Concetta negli anni Trenta – era sicura di andarsene un giorno o l’altro, convinta che la baracca non sarebbe stata per sempre la sua vita.
18 ANNI FA: L’ULTIMA LEGGE PER IL RISANAMENTO
Sì, certo. C’è una legge regionale del luglio ‘90, l’ultima in ordine di tempo, che prevede il risanamento di Messina: una legge speciale dove si annuncia lo sbaraccamento e la riqualificazione urbana e sociale, mettendo a disposizione, ai tempi, 500 miliardi di lire. Peccato che ne siano stati usati solo 150, gli altri perduti chissà come e finiti chissà dove. I piani particolareggiati sono stati approvati solo nel 2002 (e nel 2004 la regione Sicilia ha stanziato altri 70 milioni di euro) ma gli espropri, le demolizioni e le nuove costruzioni hanno il freno a mano tirato dei ritardi e delle burocrazie, tanto che – secondo un censimento di Legambiente – sono ancora 3336 i nuclei baraccati presenti in città. Così, alla fine, per disperazione certe famiglie ormai fanno le terremotate a vita. Ottenuta una nuova casa popolare, lasciano ai figli la baracca nelle favelas, in un’interminabile catena-di-sant’antonio della povertà: ma è ’unica eredità consentita a chi – nel ’61, i giorni del boom, erano ancora 30mila i baraccati di Messina – ha vissuto dove è indegno vivere e solo quel tesoro ha da offrire.
E se accenni al Ponte sullo Stretto si mettono a ridere e indicano il loro, con vista sul liquame. Fondo De Pasquale e Fondo Basile, Giostra e Annunziata, Camaro e Fondo Saccà. Ecco le colline dove riposano le baracche, le spoonriver dei vivi-malgrado-tutto con il loro catalogo di storie come quella della signora Lilla di Giostra, in baracca dal ’27, una di quelle tirate su dal Fascismo, e ancora lì ottant’anni dopo, anche lei in compagnia di insetti e topi, il tetto che sta su per miracolo. O quella di Maria T. di Camaro, 70 anni e stesso alloggiamento, che lo scorso autunno è andata a stare qualche giorno dal figlio, a Parma, e al ritorno ha trovato la baracca occupata, tanto che, minacciata dai «nuovi terremotati», ha dovuto rivolgersi all’avvocato, per iniziare un’altra guerra tra poveri; o quella della signora Letteria di Villa Lina, che nel 2006, a 92 anni – sì, insomma, una quasi coetanea del terremoto –, dopo aver cresciuto quattro figlie in una stanza ed essere diventata nonna e bisnonna, ha fatto in tempo a vedersi assegnata una vera casa.
Oppure quella di Francesco Assenzio, classe 1911, che per cinquant’anni, ogni anno, fece domanda di una casa – senza successo, naturalmente – fino a quando se ne andò per sempre nel ’98, quattro anni prima di diventare trisnonno di un altro Francesco Assenzio, nato pure lui tra il legno, le lamiere e il provvisorio infinito. Commento di Maria A., 55 anni di Giostra, un’unica stanza divisa in tre, un vecchio televisore per stanza: «Non ce n’è di travaglio qui e adesso il Comune ci chiede il fitto arretrato per queste baracche: 3500 euro. E io dove li trovo?». Epigrafe di un’altra Maria, 43 anni, vicina di casa: «Ha visto quanto è largo il vicolo? Se si ingrassa non si passa, ma non c’è rischio. Ma non ci passa neppure la cassa da morto quando si va al cimitero. E di solito arriva prima quello dell’assegnazione. Non c’è da sperare qui»
Qui, dove nell’inverno del 1909, a poco più di un mese dal terremoto, la città era sì pura maceria, ma dava anche l’idea del cantiere, tanto che Luigi Barzini, sul Corriere, regalò da quaggiù – era il 4 febbraio 1909 – la speranza che «un grande avvenire si preparerà per Messina». Ma durò poco, quando gli aiuti, giunti da mezzo mondo, se ne tornarono a casa, l’illusione s’imbarcò con loro: già il 9 maggio la baracca – una parola durata un secolo e ancora in piedi nei resoconti – prendeva possesso delle cronache, ché «per l’assegnazione delle baracche, contro soprusi e favoritismi, la polizia sparò contro la folla lasciando sul terreno 5 morti». Da allora, sul terreno, Messina ha lasciato le baracche: sopravvissute al re e al fascismo, a due guerre mondiali e pure ai 61 governi della Repubblica. Monumenti (con) viventi a un secolo d’Italia. -
Cesare Fiumi
Fonte : http://www.corriere.it


